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Ha tutta l’aria di una vera e propria rivoluzione copernicana, per il diritto fallimentare e anche il mondo delle banche e degli intermediari finanziari, quella che si prospetta con la riforma del diritto che regola la materia della crisi d’impresa e del risanamento aziendale. Il Decreto Legge 118/2021, approvato lo scorso agosto e che dovrà esser convertito entro fine mese, apporta infatti cambiamenti sostanziali alla normativa: impone l’entrata in vigore immediata delle modifiche alla disciplina del Codice della Crisi di Impresa concernenti gli accordi di ristrutturazione e convenzione di moratoria, ma soprattutto introduce la figura di un esperto indipendente, che agevoli le trattative tra creditore (cioè la banca) e debitore. Il processo di mediazione può essere attivato da qualunque debitore (dalla microimpresa fino alla multinazionale) ed è finalizzato a trovare un accordo con i creditori per rimediare a una situazione di squilibrio economicofinanziario o patrimoniale, oppure di insolvenza reversibile. Si deve però concludere di norma entro 180 giorni (salvo proroga fino a 360 giorni con l’accordo di tutte le parti) e in caso di mancato accordo il debitore può presentare domanda di concordato liquidatorio «coattivo» semplificato.

Le conseguenze per il credito
Proprio quest’ultima è forse la novità che mette in guardia gli istituti di credito, obbligati a partecipare alla mediazione in modo propositivo e informato. In primo luogo perché tale concordato non prevede la votazione dei creditori, ma soprattutto perché non garantisce loro una minima percentuale di recupero e dovrebbe concludersi in tempi ristretti. Fino a questo momento le ristrutturazioni avevano infatti una durata molto lunga, che dava modo alle banche di gestire le svalutazioni dei crediti deteriorati diluendole in più esercizi: di qui la tendenza spesso a disinteressarsi e a non partecipare alle trattative. «Con l’introduzione del concordato coattivo – spiega Luca Zitiello, managing partner dello studio Zitiello Associati – si rischia invece di dover svalutare un credito in modo drastico e nel giro di un solo esercizio e per questo motivo la banca non soltanto ha l’obbligo, ma anche tutto l’interesse a sedersi al tavolo per trovare una soluzione con l’impresa in difficoltà». Ma non basta: la possibilità di avvio immediato della procedura di concordato liquidatorio incide anche sul valore dei crediti in oggetto, che le banche hanno in questi ultimi anni hanno messo sul mercato con successo. Con il risultato che le cessioni a terzi di Npl saranno probabilmente meno semplici e soprattutto rischieranno di concludersi a prezzi inferiori rispetto a quelli spuntati nel recente passato.

In ballo 80 miliardi di Utp
Le cifre in gioco sono del resto significative: secondo il MarketWatch Npl di Banca Ifis, in Italia a fine 2021 il valore complessivo di crediti deteriorati (ancora presenti nei bilanci delle banche o ceduti a terzi) sarà pari a 345 miliardi di euro, circa 80 miliardi dei quali relativi alle inadempienze probabili (o Utp, unlikely-to-pay ). Queste ultime, il cui ammontare è destinato a crescere di nuovo dopo Covid- 19, sarebbero le prime a entrare nell’orbita della nuova normativa. «Dobbiamo mettere in conto un paio di anni di rodaggio, ma credo che quando entrerà a regime la riforma potrà coinvolgere una parte significativa delle insolvenze e in particolare degli Utp», sostiene Fabrizio di Marzio, Of Counsel di Zitiello Associati, sottolineando come l’obiettivo sia anche e soprattutto quello di giungere a soluzioni concordate positive: «Oggi – ricorda – le trattative hanno come esito nel 90% dei casi la dichiarazione di fallimento, mentre con le nuove norme potremmo vedere anche un’equa distribuzione delle risorse residue con le ristrutturazioni, ma occorrerà tempo».

Banche fra rischi e opportunità
Queste ultime considerazioni portano a ragionare su quali siano verosimilmente le reali finalità del legislatore, che con il Decreto Legge sembra voler responsabilizzare gli istituti di credito assegnando loro una sorta di funzione economico-sociale. «È come se alla banca fosse conferito un ruolo di salvaguardia delle imprese in crisi, spingendole a partecipare attivamente alle trattative per indirizzarle verso una soluzione condivisa», rileva Eugenio Bissocoli, Of Counsel di Zitiello Associati, sottolineando come da qui in avanti «ci si dovrà abituare a considerare non tanto le singole posizioni creditorie, e a come valorizzarle ai fini di un’eventuale cessione, ma soprattutto al rapporto con l’impresa e quindi alla concessione di nuova finanza ai clienti meritevoli». Il Decreto Legge mira del resto ad applicare una normativa Ue del 2019 in materia e gli istituti di mediazione sono già molto diffusi nei Paesi dell’Europa settentrionale. Resta da capire quanto in realtà le banche abbiano preso consapevolezza della portata della novità e l’impressione generale è che la complessità della situazione sia stata compresa. Come affrontare la situazione è però un processo ancora in divenire e sono ovviamente molte le differenze fra i soggetti chiamati in causa. «Gli istituti di grandi dimensioni hanno certo a disposizione maggiori risorse per affrontare la questione, ma le realtà locali hanno mantenuto rapporti più diretti con le imprese», avverte di Marzio, ricordando come in ogni caso «questa riforma sia destinata a incidere sul processo organizzativo interno alle banche e ad aprire spazi alla consulenza esterna che, se capace di interpretare il radicale cambiamento di direzione, potrebbe rappresentare un’ancora di salvezza». Di certo, la nuova normativa porta con sé anche sviluppi interessanti di mercato: chi sarà in grado di gestire in modo migliore il cambiamento potrà infatti avvantaggiarsi non soltanto in termini di costi ed efficienza, ma guadagnando anche quote nell’erogazione del credito a scapito dei concorrenti che si riveleranno meno abili.

fonte: Il Sole 24 Ore | FINANZA E MERCATI | di Maximilian Cellino